Altre Ecologie - Quando l'Arte protegge il Pianeta

Cannupa Hanska Luger: l’artista che sogna un futuro ancestrale per la Terra 

di Maurita Cardone.

Il rapporto dell’uomo con la Terra non è sempre stato basato su logiche estrattive. Un tempo le popolazioni umane guardavano con rispetto all’ambiente di cui erano parte. Quella reverenza nei confronti del Pianeta è uno dei principi fondanti delle culture indigene del Nord America e, attraverso l’arte, può tornare a ispirare le nostre scelte. Cannupa Hanska Luger, artista multidisciplinare il cui lavoro è intriso di ecologia, ci invita a immaginare scenari nuovi e antichi al tempo stesso. Luger ha origini native americane ed è nato a Standing Rock, una riserva indiana al confine tra South e North Dakota, passata alla storia per le accese proteste del 2016 contro la realizzazione di un oleodotto in quell’area. 

Profondamente radicato nelle sue origini e nel legame con la terra, il lavoro di Luger sfida le narrazioni dominanti ed esplora temi di ambientalismo, sopravvivenza culturale e futuro. Spaziando dalla scultura alla performance e utilizzando i materiali più diversi, l’artista fonde la conoscenza tradizionale degli indigeni con le pratiche artistiche contemporanee per creare mondi possibili oltre le logiche imperialiste. 

All’interno della mostra virtuale Altre Ecologie: quando l’arte difende il pianeta, presentiamo due lavori di Hanska Luger molto diversi tra loro. All’interno della sezione Resistenza, dedicata ad esperienza artistiche che si muovono sulla linea di confine con l’attivismo ambientale, troviamo Mirror Shield Project, un video tutorial e un’azione che l’artista creò in funzione delle proteste contro la Dakota Access Pipeline che minacciava la sua terra natia. Non poteva che essere all’interno della sezione Futuro, invece, Future Ancestral Technologies, una serie di opere video in cui Hanska Luger immagina un futuro in cui le conoscenze tradizionali degli indigeni garantiranno la sopravvivenza dell’umanità sul Pianeta. 

A partire dal suo rapporto con Standing Rock, ci siamo fatti raccontare la sua pratica e la sua visione del mondo, in cui la sua cultura e la sua arte si fondono per immaginare un futuro in cui l’uomo vive in simbiosi con la Terra. 

L’intervista

[Maurita Cardone]: Sei originario di Standing Rock, un nome diventato iconico per il movimento ambientalista, ma questo è anche un luogo che esisteva prima delle proteste del 2016-2017. Puoi raccontarcelo un po’?

[Cannupa Hanska Luger]: Vengo dalle tribù Mandan, Hidatsa e Arikara, che sono popoli fluviali. Mio padre è originario del fiume Cheyenne ma ha passato tutta la vita a Standing Rock ed è lì che sono nato, in una città chiamata Fort Yates che era un forte militare. È una specie di penisola in un lago creato da dighe sul fiume Missouri costruite tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 per rallentare il flusso del corso d’acqua. Queste dighe furono costruite dal Corpo degli Ingegneri dell’Esercito per rendere il fiume navigabile e sfruttare l’energia idroelettrica, ma allo stesso tempo consentirono all’Esercito di espropriare terre alle comunità tribali. Molte riserve hanno perso terra a causa dei laghi e molte popolazioni indigene sono state separate dai loro corsi d’acqua. Standing Rock ha una lunga storia di politiche federali a svantaggio delle popolazioni indigene. Durante le proteste contro l’oleodotto Dakota Access diventò un hashtag e se ne parlava su tutti i giornali. Ma poi, quando ha smesso di fare notizia, è stato dimenticato come luogo. Ora quel nome si sente solo in riferimento alle proteste e a quel momento storico.

Parlaci del movimento nato intorno alla lotta contro il Dakota Access Pipeline.

La proposta di costruire il Dakota Access Pipeline è del 2016. Originariamente l’oleodotto doveva attraversare il fiume vicino a Bismarck, nel Nord Dakota, dove il fiume è più stretto. Ma i cittadini si opposero a causa del rischio di inquinamento delle acque e fecero pressioni per spostare il gasdotto lontano dalla loro zona, così fu deviato a valle, a sud, vicino a Standing Rock, dove, invece del fiume, avvrebbe dovuto attraversare un lago. Questo mise in moto questo momento storico in cui le popolazioni indigene, insieme a tanti sostenitori, hanno lanciato una protesta per tentare il possibile per impedire la costruzione dell’oleodotto. Fu un momento violento, strano e bellissimo.

Da questo movimento è nato il Mirror Shield Project. Puoi spiegarne l’origine e lo scopo?

Il Mirror Shield Project è stato sviluppato per necessità di infrastrutture protettive durante le proteste. L’idea era di creare uno scudo protettivo e allo stesso tempo affrontare simbolicamente la polizia mostrando loro la loro immagine riflessa. Mi sono ispirato alle proteste in Ucraina del 2014, dove i manifestanti affrontavano i cordoni di polizia portando in mano specchi. Ma se questo può funzionare in contesti urbani in cui ci sono testimoni, noi eravamo in aree isolate e c’eravamo solo noi e la polizia. Quindi abbiamo dovuto realizzare uno specchio che non si rompesse e non ferisse le persone. L’ispirazione mi è venuta anche dal mito, dalle storie in cui gli specchi vengono usati per combattere mostri. Inoltre, c’era molta condivisione sui social media, ma sentivo che questo non era sufficiente a rispondere al desiderio di coinvolgimento di tante persone che non potevano essere fisicamente presenti o contribuire finanziariamente. Quindi creai un video tutorial per costruire questi scudi utilizzando materiali semplici ed economici. In molti in tutto il paese iniziarono a realizzarli. Ad un certo punto un gruppo di Minneapolis ne realizzò 500 in pochi giorni. Andai a prenderli per poi portarli a Standing Rock. Ma a quel punto c’era sorveglianza ovunque, molti posti di blocco per raggiungere la zona, un massiccio dispiegamento di polizia, guardia nazionale e società private di sicurezza. Dai posti di blocco non lasciavano passare nulla che potesse essere usato come arma. Non eravamo sicuri se gli scudi rientrassero in questa categoria ma dal momento che erano loro a decidere cosa fosse un’arma e cosa no,  era facile presumere che li avrebbero considerati tali. Quindi dovevamo cambiare la narrazione. Così durante il viaggio abbiamo deciso di farne un’azione che trasformasse gli scudi in opere d’arte e di usare il mio privilegio di artista per portarli al campo. Alla fine l’azione è diventata un simbolo del movimento, ma non ho mai pensato agli scudi come a un’opera d’arte, tranne in quel momento in cui avevamo bisogno di una distrazione rispetto a ciò che erano. Nel campo furono usati come tegole sul tetto di alcune baracche, come slitte e per altri scopi. È un design in formato aperto che ha dato libertà d’azione alle persone.

Dici spesso che non ti consideri un attivista. Tuttavia, l’esperienza che stai descrivendo sembra essere molto vicina all’attivismo

Non mi definisco un attivista perché conosco persone che si dedicano completamente all’attivismo, che mettono i loro corpi in prima linea e vivono all’interno di quella cultura. Io sono semplicemente un essere umano nato in un luogo che era sotto attacco, mi sono lasciato coinvolgere perché quella è casa. Chiamare attivista qualcuno che cerca di difendere la propria casa significa etichettarlo come combattente, ma io faccio arte e lo scopo principale dell’arte è la comunicazione. Se realizzo un lavoro che comunica determinate idee, ciò trasforma la mia funzione primaria? Non credo. Penso che gli artisti in generale siano quella lente che permette alla società di esaminare se stessa.

Qual è l’equilibrio tra l’aspetto creativo del tuo lavoro e il forte messaggio che il tuo lavoro trasmette, in particolare riguardo al tuo legame con la tua terra e cultura? Quale bisogno viene prima? Il bisogno di creare o il bisogno di parlare di certe cose?

Non so dove inizi uno e finisca l’altro, non c’è una chiara distinzione tra i due. Il mio legame con la terra e la mia eredità è culturalmente radicato nella mia pratica ed è una sorta di faro, è il filtro attraverso il quale passa tutto ciò che creo, è l’aria che respiro, il mare in cui nuoto. Le consuetudini della mia gente sono l’odierna economia verde e oggi la nostra sopravvivenza su questo pianeta è sostenuta da interessi economici. Ma io non sono altro che un narrastorie, in una lunga tradizione di narrastorie. Manutengo e faccio evolvere la mia cultura attraverso il mio lavoro, portando la conoscenza in spazi dove la nostra popolazione può vedersi rappresentata.

C’è una lezione per le altre culture in questo?

Più che una lezione è un ricordo. Tutte le culture ad un certo punto della loro storia adoravano la terra, la consideravano non come una risorsa ma con reverenza. Cerco di generare lavoro e idee che possano ricordare alla gente che anche loro hanno avuto quella storia. E questa è la chiave per la nostra sopravvivenza.

Le culture indigene sono spesso percepite e rappresentate come congelate nel tempo, come se non avessero passato, presente o futuro ma solo un tempo continuo. Nel tuo lavoro, invece, crei un futuro e lo colleghi al passato. Puoi parlarne?

La cultura popolare, il sistema educativo e i musei hanno finora imposto che esistessimo solo in un certo periodo di tempo e hanno valorizzato solo quanto fatto in quel riferimento storico romanticizzato. Credo sia parte del tentativo di assolvere il colonialismo. Qui nelle Americhe, per stabilire una relazione profonda con i luoghi, si acquistano prodotti indigeni, si mettono in armadietti delle curiosità e poi basta avere un aneddoto su come uno abbia aiutato queste persone. Il mercato detta ciò che viene prodotto, riaffermando quella romanticizzazione. Un punto di vista che fa vivere l’intera cultura nativa solo in quel tempo immaginato. Ma queste sono persone contemporanee e non possiamo dimenticare 200 anni di sopravvivenza, adattamento e sforzi per prosperare in un’esperienza post apocalittica. Sentivo che l’unico modo per avere davvero quella conversazione era immaginare un futuro in cui sopravvivere a tutto questo. A quel punto non è questione di essere o meno contemporanei: noi siamo il futuro. 

È di questo che si occupa Future Ancestral Technologies?

Il rapporto di equilibrio con la terra è parte della nostra cosmologia e delle nostre pratiche e consuetudini ma è anche una delle  tecnologie a cui non è stato permesso di evolversi attraverso la scienza materiale. E tuttavia sarà la base materiale per la futura sopravvivenza della popolazione globale. Ed è da qui che nasce Future Ancestral Technologies: è il riconoscimento del fatto che il tempo non è lineare, che si irradia sfericamente intorno a noi. Cerco costantemente di avvicinarmi al passato, per avere una migliore comprensione del futuro e per sviluppare un futuro che sia consapevole del fatto che stiamo solo prendendo in prestito questo posto dalle generazioni future. Quindi viaggio costantemente nel tempo, lo facciamo tutti, in ogni direzione. I nostri sé tridimensionali non possono viaggiare nel tempo, ma il nostro sé quadridimensionale è in grado di farlo: hai ricordi della tua infanzia, dei tuoi nonni, e  allo stesso modo hai ricordi di qualcosa che è accaduto storicamente alla tua gente. Tutto questo lo porti con te, attraverso la tua memoria genetica, attraverso le tue pratiche culturali. Ci muoviamo costantemente avanti e indietro nel tempo. Volevo celebrare il nostro spazio futuro e il modo in cui coesistiamo con il Pianeta in uno spazio-tempo più compiuto e inevitabile.

Pensi che sia il tuo sguardo d’artista a permetterti di immaginare il futuro o questa capacità viene dalle tue origini culturali?

Entrambe le cose. Gli artisti hanno il vantaggio, faticosamente conquistato, di poter vivere una vita immaginaria, di portare nella vita adulta quel privilegio dell’infanzia di far finta. È qualcosa di cui siamo tutti capaci, ma veniamo privati ​​del valore della finzione. E il potere che si perde nel sottomettersi alla volontà di qualche altro generatore di idee è che non puoi immaginare possibilità contraddittorie, che accetti le opzioni che ti vengono date. Penso che il vantaggio di una vita e di una pratica artistica sia che puoi sempre immaginare qualcos’altro e questo è un potere che noi, come specie, non abbiamo utilizzato al massimo. I sistemi in cui navighiamo, sia economicamente che socialmente, minano la nostra capacità mentale di immaginare cose che non esistono. Ma questa è una capacità del cervello umano che ci distingue biologicamente da molte altre specie. Posso immaginare qualcosa che non esiste, posso vivere in quel posto, posso generare quell’idea e portare talmente tante persone a contribuire a quella cosa immaginata che quella cosa può diventare reale. Questo è il potere della fantascienza, che sogna cose che poi rendiamo possibili in pochi decenni. E quello che la fantascienza ha immaginato sta diventando realtà così rapidamente che penso sia importante considerare altre ipotesi su come sarà il nostro futuro, prima che sia ridotto a un sistema militarizzato. Al momento, infatti, molte applicazioni che la fantascienza immagina riguardano nuovi modi di controllo. Se potessimo immaginare e celebrare altre tecnologie, allora potremmo mettere in moto equilibrio e armonia con l’ambiente, con la Terra, con le popolazioni. Facciamo più sogni di questo tipo e vediamo cosa succede tra 50 anni.

Puoi spiegare cosa intendi esattamente quando usi la parola tecnologia?

È un’idea, è un concetto, è una forma che ha luogo in quello spazio immaginativo in cui si sogna qualcosa che non esiste o qualcosa che esiste ma amplificato in modi nuovi. Penso che la tecnologia, come la intendiamo nel 21° secolo, sia ridotta a meccanismi. Esiste un’intera industria tecnologica, ma in realtà celebra solo l’ultima versione di tecnologie molto vecchie. La comunicazione satellitare è solo l’amplificazione del canto degli uccelli o della bioluminescenza dei pesci degli abissi. È comunicazione: questa è la tecnologia, tutto il resto, tutto ciò che chiamiamo tecnologia, è solo l’idea che si muove attraverso la scienza materiale. Ma esiste tanta tecnologia cui non è stato permesso di evolversi attraverso quel meccanismo. Attualmente le economie verdi stanno cooptando alcune tecnologie indigene, ma siccome non sono iPhone o razzi, la gente non riconosce che si tratta di tecnologia. Ma uno smartphone è il canto degli uccelli, un razzo è il fuoco. Quanta strada abbiamo fatto? Non abbiamo fatto altro che amplificare fuoco e ruota. Mi piacerebbe vedere qualche nuova tecnologia e lasciare che si sviluppi attraverso i sistemi di amplificazione che hanno sostenuto altre tecnologie.

Nel tuo lavoro usi tanti materiali diversi. Puoi parlarci un po’ del rapporto che hai con i materiali?

Con più materiali lavoro, meno ho problemi di idee. Creare pratiche diverse con una varietà di materiali diversi apre la possibilità di immaginare cose diverse. Che siano creati dall’uomo o meno, i vari materiali hanno il potere di comunicare idee. Se li ascolti hanno molto da dire e, attraverso quella conversazione, puoi diventare un creatore migliore. E questo influenzerà il lavoro e, alla fine, anche altre persone.

Utilizzi anche molti materiali di scarto. Perché e qual è il significato dietro questa scelta artistica?

Non avendo ricchezza economica diventi piuttosto creativo con ciò che hai intorno a te. E questo fa anche parte delle  tradizioni e consuetudini degli indigeni. Mantengo la prassi culturale di interagire con risorse che sono disponibili, che non rischiano di essere esaurite e che tuttavia non sono utilizzate come potrei immaginare. Cos’è un rifiuto? Qual è un sottoprodotto delle industrie in cui opero? Posso generare lavoro dal sottoprodotto di altre economie che sostengono la mia? Ciò che buttiamo via, ciò che sprechiamo, ciò che mettiamo in discarica, ciò che disperdiamo nei mari, sarà lì per i figli dei nostri figli. In Future Ancestral Technology immagino quello spazio futuro e mi chiedo: come possiamo trasformare quei rifiuti in cultura, in materiale per raccontare una storia? Come possiamo riesaminare quei materiali in quello spazio futuro e trasformarli in qualcosa che abbia valore per comunicare la nostra storia alle generazioni future? Come trasformiamo quella spazzatura in qualcosa di maggior valore e come ce ne prendiamo cura? La nozione imperialista occidentale è che le nostre culture, le nostre popolazioni e i nostri prodotti di creatività devono essere preservati per le generazioni future. Ma il modello conservativo uccide la cultura che sta cercando di preservare, la mette sotto vetro, la rinchiude negli scantinati. La cultura non si scambia mai attraverso la conservazione, ma attraverso la manutenzione. E come si fa manutenzione della cultura? Costantemente riparando e lasciando andare cose. Utilizzare materiali che sono già sottoprodotti di cose diverse significa trasformare il motivo principale per cui quel qualcosa esiste in qualcos’altro e riconoscere che anche quello cambierà. Lo spettatore riconosce che è tutto in continuo cambiamento, che possiamo lasciare andare le cose, possiamo ripararle e possiamo renderle nuove, semplicemente attraverso l’applicazione. Il materiale più prezioso è la nostra capacità creativa che ci permette di trasformare la spazzatura in tesoro e celebrare le applicazioni piuttosto che il valore materiale delle cose. I detriti del nostro presente potrebbero essere la più grande montagna di risorse del nostro futuro. Cosa ne faremo? Li ricicleremo, li bruceremo, li seppelliremo? E se li usassimo finché non sono più niente? Se questa fosse un’opzione?

In questo modo anche la tua arte diventa una cosa viva. Ma nel tuo lavoro usi anche corpi reali. Come si inserisce  il fattore umano in questo processo? È un altro materiale?

La maggior parte delle volte è il mio stesso corpo che utilizzo nelle performance e utilizzo il corpo umano perché comunico con persone umane e le persone sono programmate per entrare in empatia con se stesse. Da un lato, sono un essere umano, quindi questo è il mio filtro. D’altra parte, se voglio comunicare con gli esseri umani, dov’è che posso incontrarli in una condizione in cui siano felici di ricevere nuove informazioni? Uno di questi posti è la forma umana. Vedere un corpo genera componenti relazionali immediate che poi aprono spiragli di familiarità. Poi aggiungiamo nuovi ingredienti e vediamo cosa succede. 

Riferimenti e contatti
Cannupa Hanska Luger official website | Instagram
Immagini
Cannupa Hanska Luger – Mirror Shield Project, 2016-in corso. Collaborazione sociale, video, scultura, land art performance. Dimensioni e durata variabili. Materiali per gli scudi: legno, Mylar riflettente, paracord. Azione site specific, organizzata in collaborazione con Rory Wakemup, il 18 novembre 2016, all’Oceti Sakowin Camp, Standing Rock, North Dakota © L’artista (per gentile concessione dell’artista e della Garth Greenan Gallery, New York City)
Copyright
Immagini e video © Cannupa Hanska Luger